Anche il GDPR è percepito come un pesante adempimento burocratico, al quale far fronte con soluzioni standardizzate. La scuola, tuttavia, potrebbe affrontare il problema non solo dal punto di vista amministrativo-burocratico e cogliere l’occasione per rilanciare il suo ruolo educativo. Ecco qualche esempio
anche il mondo della scuola, con una certa apprensione soprattutto da parte di dirigenti scolastici e DSGA, sta attendendo il 25 maggio prossimo. Data fatidica, nella quale entrerà in vigore il Regolamento generale europeo della privacy. La sigla GDPR sta diventando familiare, anche se in molti si stanno ancora interrogando sulle conseguenze: cosa comporterà il GDPR, in termini di adempimenti?
Inutile fingere: nella Pubblica Amministrazione (scuola inclusa) le norme si affastellano sistematicamente, da anni, producendo soprattutto una quantità crescente di atti, documenti, moduli, procedure. In estrema sintesi, gli aspetti burocratici tendono a prevalere.
È la cosiddetta “logica dell’adempimento”, secondo la quale non sono tanto importanti il processo o il contenuto, ma è indispensabile (sufficiente?) dimostrare di avere le “carte in regola”.
A giudicare dagli annunci pubblicitari che si trovano in rete, anche grazie ai famigerati algoritmi dei social network, si direbbe che il GDPR sia già percepito come un pesante adempimento burocratico, al quale far fronte con soluzioni standardizzate, ove possibile.
Ad esempio, per la figura del Responsabile della Protezione dei dati (RPD, DPO nella versione inglese), si configurano già possibili incarichi esterni, così come già accade per la sicurezza, con il RSPP. Un’altra sigla, da aggiungere alle tante (troppe!) già in uso?
Nella scuola, tuttavia, si potrebbe affrontare il problema non solo dal punto di vista amministrativo-burocratico. La doppia natura delle istituzioni scolastiche (pubbliche amministrazioni e comunità educative) potrebbe questa volta tramutarsi in un’occasione.
Partendo dalle questioni amministrative, si dovrebbe intanto riflettere sulla quantità e qualità dei dati personali che le scuole sono tenute, per compiti istituzionali, a trattare e ad archiviare ma anche ad altri che si trovano a detenere, sui processi di trattamento e le modalità anche tecniche di archiviazione e comunicazione.
Sul lato educativo, le recenti vicende legate alle violazioni perpetrate attraverso i social network rimandano direttamente, da un lato, alla regolamentazione delle attività di tali servizi ma anche al tema delle competenze digitali.
Partecipare volontariamente ad un giochino proposto attraverso un social network è per molti un momento di svago innocente, ma quanti sono consapevoli di quali e quanti dati personali possono essere divulgati (a chi?) attraverso tale azione?
Ci sono poi i numerosi casi di vita quotidiana, nelle scuole, nei quali talvolta si osservano atteggiamenti “estremi”: la circolare emessa da un dirigente scolastico per vietare la “foto di classe” è un esempio, prontamente ripreso dai media e dai commentatori di fenomeni di costume.
Quando abbiamo a che fare con adolescenti, i significati della privacy cambiano: danah boyd (volutamente minuscolo, una scelta “estetica” dell’autrice!), una delle più affermate studiose internazionali di educazione ai media, nel suo libro “It’s complicated – La vita sociale degli adolescenti sul web”, sostiene che i nostri ragazzi abbiano una loro peculiare idea di privacy:
“Quando gli adolescenti – e se è per questo la maggior parte degli adulti – cercano la privacy, lo fanno in relazione a chi ha potere su di loro. Al contrario dei sostenitori della privacy e degli adulti con più coscienza politica, in genere non si preoccupano per i governi e le multinazionali. Cercano invece di evitare la sorveglianza di genitori, insegnanti e altre figure autoritarie vicine alla loro vita”.
Adolescenti che sembrano non curarsi tanto della diffusione (potenzialmente planetaria) di una loro fotografia, ma che si defilano con una certa determinazione dal mondo degli adulti. La “fuga” dei giovani da Facebook, ad esempio, secondo alcuni osservatori (inclusa la stessa boyd) è motivata proprio da questa perenne ricerca di “luoghi” (una volta prevalentemente fisici, ora soprattutto virtuali) diversi da quelli frequentati dagli adulti.
Sono gli stessi ragazzi, tuttavia, che dovranno inevitabilmente prendere consapevolezza di una digital footprint, che acquista sempre più importanza nella vita reale di ciascuno.
Essere consapevoli della natura onlife (termine coniato dal filosofo Luciano Floridi. Si veda “La quarta rivoluzione”) delle nostre esistenze è qualcosa che ancora forse si dà per scontato, a scuola (anche se, fortunatamente, lo stereotipo dei “nativi digitali” sembra avviato al ridimensionamento) ma che deve trovare, al contrario, spazio e rilevanza all’interno dei curricoli.
Il problema, si può facilmente intuire, è sempre lo stesso: può la scuola farsi carico di tutte queste “educazioni”? Anche volendo farlo, vi sono le competenze necessarie?
Categoria: In primo piano | Data di pubblicazione: 08/09/2018 |
Sottocategoria: Notizie | Data ultima modifica: 13/09/2018 19:00:51 |
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